In Africa il Coronavirus sta continuando la sua progressione da quando, il 25 febbraio scorso, è stato scoperto il primo caso in Algeria. Da allora l’infezione è costantemente progredita e oggi sta interessando tutti gli Stati africani, ad eccezione del Lesotho.
Dal 29 aprile al 6 maggio 2020 c’è stato un aumento dei positivi del 47%, con 10.577 casi confermati e un aumento delle persone decedute (circa 300 morti in più, pari al 33%): sono stati interessati soprattutto Guinea Bissau, Ciad, Nigeria e Repubblica Centro Africana.
Fortunatamente alcuni Stati – Eritrea, Mauritius, Namibia e Seychelles – non hanno registrato nuovi contagi negli ultimi giorni.
Complessivamente, al 5 maggio 2020 i casi di Covid 19 confermati in Africa erano 49.121, con 1956 morti, nei 54 Stati. I Paesi con il numero più alto di decessi sono Algeria, Sudafrica, Camerun, Nigeria e Burkina Faso.
Il WHO (World Health Organization) sta supportando parecchi Stati africani, anche nel monitorare la progressione della pandemia, attraverso l’impegno di un gruppo di esperti.
Il gruppo dell’EMT (Emergency Medical Team) è composto da medici infermieri e personale paramedico che nelle zone più colpite supportano il sistema sanitario locale senza interferire con loro attività.
Il loro lavoro è vario e va dal più alto livello di coordinamento con il Ministero della Salute locale al training di personale che si occupa di sanità sul campo nelle zone dove il contagio è più importante.
Il personale del team, la maggior parte del quale ha fatto esperienza durante l’epidemia di Ebola, sta portando in queste zone un prezioso supporto in termini di prevenzione dell’infezione e nel controllo della tracciabilità di pazienti positivi.
I governi africani comunque hanno dimostrato, fin dei primi momenti della pandemia, una prontezza quasi inaspettata moltiplicando ad esempio i laboratori di analisi e, come accade nel resto del mondo, stanno cercando di pubblicizzare anche tramite radio e televisioni l’importanza dei sistemi di prevenzione: l’utilizzo di mascherine, l’igiene personale, il distanziamento sociale. Oltre ad avere messo in atto il lockdown lavorativo, la restrizione dei voli con la chiusura delle frontiere, lo screening di persone provenienti da zone a rischio.
La maggiore difficoltà, a tutt’oggi, rimane quella di capire i numeri reali dell’infezione, una difficoltà legata alla non certezza delle diagnosi per mancanza, ad esempio, di tamponi, per la complessità della prevenzione, per un’impossibilità quasi di fatto del distanziamento sociale e di una corretta attuazione delle norme igieniche.
Molti africani, nonostante l’ampia informazione, sembrano infatti non essere in grado di rispettare le misure di prevenzione. Certo si laverebbero volentieri le mani se avessero l’acqua a disposizione; ma spesso accedervi è veramente complicato. Certo starebbero volentieri in casa, se una casa l’avessero. Come pure manterrebbero volentieri il distanziamento sociale se milioni di persone non vivessero nelle township o negli slum, dove la densità abitativa rende assurdo il concetto stesso di isolamento: spesso in una catapecchia di lamiera di pochi metri quadri vivono ammassate anche più di 10 persone con l’impellente esigenza di uscire, perché se ogni mattina non esci la sera non mangi.
E forse in questo sta la chiave di ciò che qualcuno chiama fatalismo: l’alternativa è tra rischiare di morire per il virus o di fame. La prima è una possibilità, la seconda diventerebbe una certezza.