Racconti di volontari: Una nuova “rubrica” nel sito AMOA
Inauguriamo una nuova “rubrica” nel sito AMOA. La testimonianza diretta, il “vivo” racconto di soci, amici, volontari protagonisti in questi anni dell’attività dell’Associazione. Cominciamo con “i ricordi dal Senegal” di Alessandro Tintorri, architetto, socio AMOA dal 2004.
“La in Senagal, dove i pianeti sono riallienati…”
Amico di Gian Luca Laffi da sempre, avevo anche conosciuto Babacar Cissè nel 1994 ed ho ovviamente seguito le attività di AMOA fin dai suoi primi passi. Credo quindi si possa ben comprendere la mia emozione quando, nel 2005, ho avuto la possibilità di partecipare alla mia prima missione proprio al Centro Oftalmologico di M’Bour in Senegal.
La mia prima volta in Africa
Con la valigia piena di medicinali, occhiali e ferri chirurgici e con in uno zaino i pochi vestiti e gli effetti personali, parto da Bologna per raggiungere via Parigi Dakar. Con me l’amico oste Alessandro, anche lui volontario alla prima missione, mentre il resto del gruppo con i sanitari, Gian Luca, Giovanna e Yuri era già là, al lavoro da qualche giorno, e ci avrebbe poi raggiunto Antonio, un altro volontario alla sua prima missione.
Il fatto di viaggiare noi pivelli da “soli”, non è che mi piacesse tantissimo, ma Gian Luca era stato prodigo di rassicurazioni sul fatto che tutto era stato organizzato alla perfezione e non avremmo incontrato intoppi.
In fila all’aeroporto, da europeo stressato
Atterrati a Dakar poco dopo la mezzanotte, seguiamo gli altri passeggeri e ci dirigiamo verso il varco della dogana. Sull’aereo ci era stato consegnato il classico questionario e, al momento di rispondere se avevamo oggetti atti ad offendere, il pensiero è subito corso a quei bei pacchi di bisturi. O alle “sostanze proibite”… Chi lo sapeva cosa ci fosse in tutte quelle boccettine… Ovviamente mentre barravo la casella NO, una goccia di sudore mi è scesa lungo tutta la schiena.
Da buon europeo stressato, avrei potuto dare in escandescenza per quella fila che avanzava così lentamente nell’indifferenza generale, invece apprezzavo ogni secondo guadagnato perché attendevamo, con ansia l’intervento dell’agente di polizia Sanè, fratello di Ninì, un’infermiera del Centro Oftalmologico. Quando nel salone dell’aeroporto udimmo quindi un tonante “Sandrò”, vedemmo la faccia sorridente del nostro salvatore!
In men che non si dica ci ritrovammo fuori, nel caldo afoso del piazzale antistante l’aeroporto. Ci attendeva Moussa, l’autista che Babacar aveva assoldato per “gestire” noi italiani durante la permanenza.
Quel cielo sconosciuto, “galleggiando” su strade
di sabbia
Nonostante la stanchezza ho “visto” tutto! Dal caos della periferia di Dakar, con gente che sbucava da ogni dove approfittando della temperatura finalmente mite della notte, ai venditori ambulanti che approfittavano di ogni piccolo rallentamento per proporti la loro mercanzia, alle esposizioni di mobili o elettrodomestici e quant’altro ai lati della strada, così all’aperto, semplicemente. Alla quiete del nulla tra un piccolo paese lungo la strada e l’altro. E in quel nulla vedevo solamente il buio, ma proprio buio, buio… E poi le stelle, tantissime in quel pezzo di cielo per me sconosciuto!
Dopo circa un’ora e mezza di viaggio arriviamo a M’Bour e, appena lasciamo le strade principali asfaltate iniziamo a galleggiare su strade di sabbia. Arriviamo infine al Centro e gli altri, nonostante l’ora, sono tutti lì ad aspettarci, compreso Babacar, con la tavola imbandita.
La foresteria del Centro è perfetta! Conosco il guardiano Ibra, che ci mostra la nostra camera. Consegniamo le valigie con i materiali e poi tutti a nanna perché, ci dicono “domani sarà una giornata intensa”.
Nonostante tutto, l’adrenalina mi tiene sveglio ma quattro chiacchere con l’oste, qualche nota dei primi Coldplay e un po’ di pagine di Palahniuk mi accompagnano finalmente nel sonno.
Lo screening al lebbrosario di M’Balling
I compagni di missione avevano organizzato per noi pivelli una fantastica iniziazione: lo screening al lebbrosario di M’Balling, un villaggio a pochi chilometri da M’Bour. Anche se la lebbra era ormai debellata, le nuove generazioni delle famiglie colpite da questa malattia continuavano a vivere in questi “ghetti” dove si mescolavano bambini sani come pesci e perennemente in movimento ad anziani mutilati e quindi dalle ridottissime capacità motorie.
La scena che si presenta ai nostri occhi all’arrivo sembrava uno scatto di altri tempi: una cinquantina di persone sedute al riparo della folta chioma di un albero secolare a fianco della strada, proprio di fronte all’ingresso del dispensario.
All’ingresso della piccola struttura, manifesti appesi ricordavano di proteggersi dall’AIDS, di usare contraccettivi ma anche di lavarsi bene le mani per contenere l’epidemia di colera! Sia io che l’altro Alessandro, straniti e senza mansioni precise per quel nostro primo giorno, abbiamo fatto quello che potevamo: documentando l’attività con foto e filmati e aiutando i sanitari anche solo portando loro l’acqua mentre visitavano.
Ancora oggi vedendo le foto dello screening rivivo la tensione, l’imbarazzo o meglio l’inadeguatezza provata in qui momenti. In tutti gli scatti infatti assumevo posture che un qualsiasi strizzacervelli, neppure tanto bravo, identificherebbe come tipica espressione di chiusura, difesa, rifiuto e chi più ne ha ne metta….
Deve essere stata però, una sensazione momentanea perché da quel momento. Mi sono innamorato di quelle persone e di quei posti. E il “mal d’Africa”, fortunatamente solo quello, mi aveva già contagiato!
Nei giorni seguenti la mia giornata si divideva tra i compiti di: logistica, curando l’approvvigionamento del cibo e di ogni altra cosa possa essere utile ai sanitari; amministrazione, redigendo i report delle attività, sia durante che post; comunicazione, documentando con foto o filmati tutte le fasi delle attività svolte.
Qualsiasi fosse l’andamento della giornata, si concludeva poi sempre alla stessa maniera: tutti insieme per una fantastica cena preparata da Michelle, la meravigliosa cuoca del Centro!
Alcune sere, approfittando del computer del Centro, ovviamente chiuso a quell’ora, aiutavo a completare la creazione del primo sito web AMOA e delle procedure per le connessioni con la strumentazione del Centro, il vero obiettivo della nostra missione.
In Senegal sarei poi tornato altre 4 volte, nel 2007, 2010, 2015 e 2016.
Quelle persone che si sono riappropriate
della vista e della dignità
Ho assistito in prima persona a tante bellissime storie di guarigioni: di bambini con banali difetti visivi, abbandonati dalle loro stesse famiglie per ignoranza o superstizione; di adulti di tutte le età, che si riappropriavano delle proprie vite e della loro dignità perché riacquistando la vista potevano tornare ad occupare il loro ruolo all’interno della comunità.
Le loro facce felici e incredule, dopo che venivano tolte le bende dagli occhi oppure trovate le giuste lenti per gli occhiali, sono la ricompensa più bella per il nostro impegno.
Ma l’episodio che più mi ha segnato è stato questo: 2015, ultimo giorno della missione. Con le valigie pronte eravamo nella veranda della foresteria di M’Bour, quell’anno seconda tappa dopo un primo periodo a Cabrousse, in Casamance.
Aspettavamo l’autista che ci avrebbe accompagnato all’aeroporto, ognuno assorto nei propri pensieri. Il giorno del rientro è di solito un giorno particolare… in cui per me, semplice volontario, prevale la tristezza perché ogni volta in missione è sempre stato di più quello che ricevevo di quello che avevo offerto!
E poi come dico sempre, quando sei là “ti si riallineano i pianeti”… E preferiresti mille volte ti raggiungessero li i tuoi cari piuttosto di essere tu a reimmergerti nel frullatore delle nostre vite occidentali.
Ma ecco che, inattese, arrivano delle persone: una donna con tre bambini. Lei è un’insegnante e loro alunni di una scuola in cui AMOA si era recata per eseguire uno screening in una delle missioni precedenti.
Portano delle cose, entrano timidamente in veranda e iniziano a ringraziarci, regalandoci un’anguria con alcuni dolcetti inseriti nella buccia. Buccia su cui avevano inciso “MERCI AMOA”. Sarà stato l’effetto sorpresa, i loro sguardi riconoscenti o il nostro imbarazzo nel ricevere un dono senza aver fatto nulla per meritarlo ma, mentre li abbracciavo, ero io a ringraziare loro.
Poi, forse per la stanchezza o per quella maledetta polvere sempre sospesa nell’aria o per quella luce africana così intensa, i miei occhi si sono arrossati e hanno iniziato a lacrimare.